Pubblicato il 13 Luglio 2024
Dopo la tragica morte di Satnam Singh, il bracciante indiano morto dopo che un macchinario gli ha reciso il braccio, si sono accesi i riflettori sul lavoro sommerso e sulla pratica del caporalato, vere e proprie piaghe sociali del mondo lavorativo italiano. In seguito ad approfondite indagini sono finiti nei guai due “caporali” di origine indiana, residenti a Cologna Veneta in provincia di Verona, accusati di riduzione in schiavitù, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
L’inganno per lavorare in Italia
I due caporali avevano convinto 33 connazionali a venire in Italia con la promessa di una paga dignitosa e un futuro migliore. I 33 malcapitati non hanno trovato nulla di tutto ciò e si sono ritrovati a vivere un vero inferno. Tutti i braccianti hanno dovuto sborsare ben 17.000 euro per ottenere un permesso di lavoro stagionale. Per racimolare tale cifra erano stati costretti a impegnare beni della loro famiglia o addirittura a indebitarsi con i loro capi.
La Guardia di Finanza ha sottratto ai due capi beni per un valore totale di 475.000 euro, titolari di alcune ditte nel settore agricolo che sono risultati evasori fiscali e che non avevano assunto formalmente alcun dipendente.
Indiani costretti a lavorare gratis fino a 12 ore al giorno
Secondo la ricostruzione delle Fiamme Gialle i 33 braccianti erano costretti a lavorare gratis per 12 ore al giorni, in condizioni disumane e senza neanche un giorno di riposo. La paga misera era di 4 euro all’ora, soldi che in realtà i braccianti non vedevano mai poiché erano trattenuti dai capi fino all’estinzione del debito di 17.000 euro.
I braccianti non potevano neanche andare a denunciare, poiché i capi avevano sottratto loro i passaporti appena arrivati in Italia, tenendoli di fatto sotto scacco. Gli indiani vivevano inoltre in case fatiscenti e in condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie, e chi si ribellava veniva minacciato e picchiato.
Come documentato dalle immagini registrate dai finanzieri, i braccianti venivano caricati alle prime luci dell’alba sui furgoncini nascosti tra le cassette di verdure per essere poi portati nelle campagne. I 33 indiani sono stati tutti ricollocati in ambienti protetti per avviarli a percorsi lavorativi e di inclusione sociale.