Oggi è il Dantedì: il Sommo Poeta e la Puglia, un legame antico

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Dante si richiama alle battaglie pugliesi per descrivere l’inferno nella nona bolgia; definisce «fortunata» la terra di Puglia, pur nel suo «sangue dolente».

Raccontava una sera a cena Elena Sofia Ricci che il suo ricordo di Dante Alighieri è strettamente legato alla sua bravissima insegnante di lettere, barese, e all’inconfondibile inflessione con cui leggeva i versi danteschi. Al punto che lei stessa non può fare a meno di recitarli in stretta cadenza barese; si esercitò quella sera e fu un piacere doppio, per i versi danteschi e per la loro versione barese.

Ma il sodalizio tra Dante e la Puglia non è dovuto solo a questi amarcord personali.

Il 1900, per l’editore Olscinskij di Firenze, il linguista pugliese Nicola Zingarelli dedicò un saggio al Sommo Poeta e la Puglia. Devo a Michele Marino il recupero di questo opuscolo del suo famoso concittadino di Cerignola, più noto per il Vocabolario della lingua italiana.

Zingarelli notava che ricorreva spesso nelle opere dantesche il nome Puglia e il suo derivato pugliese, anche se non nel significato geografico effettivo; era un riferimento al sud, non delimitato strettamente a quella che noi oggi definiamo Puglia.

Dante si richiama alle battaglie pugliesi per descrivere l’inferno nella nona bolgia; definisce «fortunata» la terra di Puglia, pur nel suo «sangue dolente». Ma fortunata, fa notare Zingarelli, sta per travagliata da rapidi mutamenti di fortuna. E ricorda Pirro, Annibale, Canne della battaglia, i Romani, fino a Roberto Guiscardo, Manfredi, Corradino, Carlo d’Angiò, quali vicende di fortuna accadute in Puglia.

Dante nota, a proposito della battaglia di Ceprano nel 1266, l’inaffidabilità dei pugliesi, intesi sempre in senso lato: «A Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese», notazione ingiusta, secondo Zingarelli, perché molti pugliesi combatterono con valore, perirono in quella battaglia o «languirono nelle prigioni angioine tra il Reame e la Provenza», dove furono deportati.

Dante delinea pure i confini geografici «di quel corno d’Ausonia» che è il reame di Puglia, in cui cita pure Bari. Zingarelli si chiede se Dante sia mai venuto a Bari, ma reputa improbabile che sia venuto in Puglia nonostante il fascino di San Michele e la grande passione (trattenuta perché inviso alla Chiesa) per Federico II, Puer Apuliae.

Nel de vulgari eloquentia, dividendo l’Italia non tra nord e sud ma tra versante adriatico e tirrenico, Dante parla dei quattordici dialetti principali d’Italia e cita il pugliese. Zingarelli nota che Dante non conosce le diversità radicali tra i dialetti come «il foggiano (dauno), il biscegliese, il barese (peucezio)».

E più avrebbe potuto rimarcare la diversità del salentino (messapico). In realtà il poeta si riferiva all’idioma meridionale e lo definisce sconcio e barbaro», «turpitur barbarizant»; ma il peggior dialetto d’Italia per lui si parlava a Roma. Tuttavia, elogia i poeti pugliesi che si discostarono dal loro dialetto e poetarono in modo pulito.

FONTE

Preso d’amor patrio, amor pugliese e amor dantesco, Zingarelli arriva a sostenere sulla base dei personaggi e degli eventi storici accaduti in Puglia che «il nucleo storico dell’Unità d’Italia, possiamo dirlo senza tema di errare, sta nella Puglia; il tema intellettuale di essa sta sinceramente in Dante».

Zingarelli passa poi a parlare della ricezione dell’autore in Puglia: cita un solo libro edito in Puglia, non ci sono stati tentativi di tradurre la Divina Commedia in dialetto pugliese «salvo un pigrissimo tentativo» compiuto da lui a Cerignola in età giovanile, che aveva questo incipit: «Non tenèive aute ca trendacinqu’anne quann’io inda nu vòsche me sperdieppe, ca nun ve sacce dice u cum’ e u quanne».

Poi ricorda che nel sesto centenario dantesco, il 1865, sorse a Bari un comitato di dantisti, a cui seguirono studi di Francesco Saverio Baldacchini di Barletta, Vito Fornari di Molfetta, Francesco Macrì Leone di Maglie, Giovanni Bovio di Trani e dello stesso Zingarelli.

Non mancò pure qualche iniziativa antidantesca, come quella del conte Giuseppe Ricciardi di Foggia che scrisse un pamphlet su  Le bruttezze di Dante  (1879). La rassegna di Zingarelli si ferma all’ottocento avendo pubblicato il suo opuscolo dantesco proprio il 1900. Zingarelli nota che la cultura italiana in quel momento stava vivendo un periodo davvero brillante, e ciò contagerà «la nostra regione ricca e attiva e industriale, a dispetto dell’arsura, sempre più vivo e fecondo  sarà compenetrato con la cultura pubblica».

E’ il tempo di Vecchi stampatore in Trani, de la Critica di Croce e del sodalizio con Laterza. Ma questa è un’altra storia.

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Tullio Luccarelli

Cultura deriva dal verbo latino colere, "coltivare". Sono uno studente di filologia moderna presso l'Università degli studi di Bari Aldo Moro. Scrivere è la mia passione, raccontare è il mio dovere.

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