Pubblicato il 9 Novembre 2022
Tra queste, le demenze la fanno da padrone con numeri da vera e propria emergenza sanitaria.
Si stima che nel 2050 i casi di demenza interesseranno a livello mondiale circa 153 milioni di persone (2,3 milioni in Italia, 900mila in più rispetto a oggi), passando così dagli attuali 57 milioni a un numero quasi triplicato di diagnosi.
Se ne è parlato oggi a Roma in occasione di “Mind the gaps: poniamo l’attenzione sui divari regionali nella presa in carico delle persone con demenza”, incontro organizzato per fare il punto sull’utilizzo dei fondi stanziati nella legge di Bilancio 2021 per l’Alzheimer e le demenze.
Fondo che è stato ripartito tra le Regioni per l’attuazione di piani demenza regionali che dovranno dare risposte concrete ai pazienti e alle loro famiglie, troppo spesso chiamate a farsene carico direttamente in mancanza di servizi sociosanitari strutturali. Spesso infatti l’impatto della malattia è devastante per le famiglie e per i caregiver che si trovano ad affrontare una sfida enorme sia in termini economici che sociali.
“Incidenza e prevalenza di demenza sono crescenti all’avanzare dell’età – sottolinea Lorenzo Mantovani, direttore del Centro dipartimentale di studio sulla sanità pubblica dell’Università Bicocca di Milano – e l’Italia è già oggi una delle nazioni con la struttura della popolazione più anziana, tanto che la Global Burden of Disease Collaboration identifica il nostro quale uno dei Paesi con il maggior impatto delle demenze. Le previsioni demografiche indicano che la nostra popolazione è destinata a invecchiare ulteriormente e questo è un successo del nostro sistema sanitario. Un successo che renderà però l’entità epidemiologica ancora maggiore. Se anche il carico di malattia crescerà, questo dipenderà dalla disponibilità di strumenti di prevenzione, diagnosi, trattamento e riabilitazione sempre più efficaci”.
Anche se molti passi in avanti sono stati fatti nella cura delle demenze e in particolare dell’Alzheimer, che ne rappresenta la forma più comune, la strada è ancora lunga e la prevenzione resta al momento l’unica arma disponibile, insieme alla diagnosi precoce, in grado di rallentare il decorso della malattia come spiega Alessandro Padovani, professore ordinario di neurologia e direttore Clinica neurologica, Università degli Studi di Brescia, e direttore Uo Neurologia Asst Spedali Civili di Brescia.
“La ricerca sulla malattia di Alzheimer – evidenzia – ha fatto negli ultimi anni dei notevoli progressi che hanno consentito di comprendere meglio i meccanismi patogenetici della malattia e di sperimentare strategie terapeutiche. Già oggi sappiamo che alcuni farmaci sono in grado di ridurre, se non proprio eliminare, la beta-amiloide, una proteina correlata alla neurodegenerazione, e di rallentare il decorso del declino cognitivo. In questo contesto, è fondamentale riuscire a migliorare la identificazione dei soggetti a rischio, così come lo è effettuare una diagnosi precoce in coloro che cominciano a manifestare i primi segni. Numerosi studi sembrano confermare quello che alcuni anni fa sembrava un miraggio, ovvero vi sono evidenze consistenti a favore del fatto che si possa arrivare ad una diagnosi mediante un esame ematico”.
Tali “risultati, se confermati e validati – aggiunge Padovani – potranno permettere di caratterizzare con precisione i pazienti e di intervenire precocemente anche sui fattori di rischio. In particolare, esiste la concreta possibilità di poter indagare l’effetto biologico di terapie farmacologiche anche in soggetti a rischio ancora cognitivamente intatti”.