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Elezioni americane. Una sfida per l’intelligence, i social e i tribunali

Fino a poco tempo fa i brogli elettorali e le contestazioni post voto erano argomenti da terzo mondo o situazioni riscontrabili in paesi democratici solo nel nome, ma adesso questi temi e questi toni riguardano anche gli Stati Uniti e questo preoccupa, non solo gli americani.

Pubblicato il 11 Ottobre 2020

Fino a poco tempo fa i brogli elettorali e le contestazioni post voto erano argomenti da terzo mondo o situazioni riscontrabili in paesi democratici solo nel nome, ma adesso questi temi e questi toni riguardano anche gli Stati Uniti e questo preoccupa, non solo gli americani.


Il tema delle elezioni americane è così ampio che a volte non si sa manco da dove iniziare. Un aspetto che però può essere interessante da prendere in esame è l’attenzione con cui organismi quali l’FBI e il Department of Homeland Security, ma anche piattaforme social come Facebook, stanno monitorando la comunicazione allo scopo di proteggere gli elettori dalle influenze di una parte politica, o addirittura da ingerenze straniere.
In questa corsa presidenziale che non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti gli elettori americani sono presi d’assalto, da ogni lato. Tutti vogliono parlare a loro, piuttosto che con loro o per loro.

Il primo livello d’ingaggio è quello che prevede di fornire all’elettore una buona ragione per concedere il proprio voto, dunque i candidati si sprecano in promesse di ogni natura. Poi però ci sono altri livelli su cui agiscono le campagne elettorali e qui si entra nel subdolo e nel torbido.
A volte, infatti, appare chiaro che un determinato elettorato sia fuori dalla propria portata allora si prova ad approcciarlo da un altro versante, per esempio bombardandolo con messaggi che screditano il proprio avversario, o fornendogli informazioni errate che porteranno il cittadino a commettere qualche errore formale in fase di voto a cui conseguirà l’annullamento della sua preferenza.


Il fatto che qualcuno possa giocare sporco e implementare questo tipo di iniziative è concreto e ben conosciuto ed è per questo che in America diverse entità si stanno mobilitando per cercare di arginare questo tipo di strategie. Il 2 ottobre scorso per esempio il Federal Bureau of Investigation (FBI) e la Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) hanno pensato di diramare alcune note con l’intento di mettere l’elettorato sull’avviso e spiegare ai cittadini in quali modi essi possono diventare vittime di disinformazione e imbrogli atti a condizionare il voto.
Secondo FBI e CISA le strategie per condizionare il voto molteplici e includono: disinformazione attraverso domini internet e indirizzi mail falsi, disinformazione via riviste online, attacchi cyber ai sistemi di voto oppure operazioni atte a screditare l’integrità del sistema elettorale.


Secondo queste agenzie governative c’è il serio rischio che qualcuno possa non solo cercare di condizionare l’umore e le intenzioni dei singoli elettori, che ad esempio potrebbero sentirsi delusi o presi in giro e rinunciare all’esercizio del voto, ma abbia anche in mente di diffondere falsità a voto avvenuto e in fase di scrutinio. Il maggior timore è che attori malevoli possano cercare di approfittare di eventuali disservizi del sistema elettorale (lentezza nel vaglio dei voti, dei conteggi e poi nella diffusione dei dati) per generare caos e portare incertezza nella nazione.


In una normale elezione presidenziale la maggioranza dei votanti esprimerebbe il proprio voto di persona ai seggi elettorali, ma questo è un anno particolare a causa del Covid e così molta gente ha scelto di votare via posta. A questa tendenza conseguirà una fase di spoglio, verifica e comunicazione dei dati più lenta, cosa che taluni potrebbero sfruttare per spargere dubbi ai quattro venti e gridare al broglio elettorale.
Il problema che si pongono l’FBI e la CISA è serio perché, dopo mesi in cui il presidente Donald Trump non ha fatto altro che dire di non fidarsi del voto postale, di volere dei suoi volontari presenti presso gli uffici elettorali a controllare la situazione ed, eventualmente, gruppi come i “Proud Boys” (ragazzi orgogliosi) in modalità “stand-by” cioè pronti a intervenire, ogni scusa sarà buona miccia per far scoppiare delle rivolte.


In aggiunta a tutto questo c’è da riportare anche un altro elemento che potrebbe influenzare l’atmosfera ai seggi, per chi ci andrà di persona, ovvero l’assenza della legge contro l’intimidazione alle urne. Questa misura legislativa era stata introdotta nel 1982 dopo un grave episodio d’intimidazione avveduto durante l’elezione del governatore del New Jersey, occasione in cui alcuni gruppi armati (spesso composti da ex poliziotti) si presentarono ai seggi dei quartieri a maggioranza afroamericana per dissuadere i locali dal voto. Tale normativa entrò in vigore dopo quel fatto e rimase attiva fino al 2017, anno della sua scadenza. Il fatto che questa legge non sia più in vigore preoccupa da tempo i democratici che infatti ne avevano subito chiesto il rinnovo, negato dalla magistratura.

A questo punto, considerato tutto ciò che abbiamo detto fino a qui, entra in gioco Facebook.
È oramai noto che i social media e in particolare quello di Mark Zuckerberg sono stati ottimi strumenti di propaganda elettorale durante le elezioni del 2016. In quell’occasione milioni di dati fuoriuscirono da Facebook ed entrarono nella disponibilità di Cambridge Analytica che poi li usò per disegnare una specifica strategia di social marketing politico. In quell’anno il focus andò sugli indecisi, votanti negli stati chiave, che gli analisti stabilirono orbitare in area democratica. L’idea fu quella di bombardarli selettivamente con messaggi che screditavano la reputazione della candidata Hillary Clinton inducendoli a restare a casa, al desistere dal votare. Come riporta Channel 4 in un su documentario il piano d’azione mirava a condizionare le scelte di circa 3,5 milioni di aventi diritto al voto, la stragrande maggioranza dei quali era di colore.
Dagli errori è sempre bene imparare per evitare di rifarli ed è così che Facebook si è decisa a compiere una serie di azioni atte a depotenziare le strategie di comunicazione malevole e contribuire tenere basso il rischio di tensioni dopo il voto.


In tal senso, una delle prime decisioni prese da questa piattaforma social è stata di disporre la sospensione delle pubblicità politiche, postate dai due candidati e dai loro partiti, a partire da sette giorni prima dell’Election Day. A questa disposizione aziendale è poi seguito un aggiornamento in data 7 ottobre in cui si diceva che tale sospensione non sarebbe più terminata il 3 novembre ma avrebbe continuato a restare in vigore fino a data da destinarsi. Ciò è un chiaro segno della paura che dalla sera del 3 novembre in poi qualche malintenzionato possa implementare campagne comunicative che diffondano disinformazione, accusino di imbroglio e magari chiamino i cittadini alla rivolta.


Poi, sempre nell’ottica di tutelare l’informazione, il voto e l’ordine pubblico, Facebook ha anche pensato di intervenire sui contenuti postati anche da altri attori, non solo dai politici attraverso i loro account e canali ufficiali. Il perché di questa scelta è fin troppo ovvio, perché è chiaro a tutti che molti post legati alla politica non vengono veicolati direttamente dai candidati e, in via ufficiale, dalla loro campagna ma si mandano in circolo fruttando account e gruppi creati specificatamente per lo spread (la diffusione), o che comunque orbitano attorno ai due contendenti. Dunque, Facebook ha disposto la chiusura di profili falsi creati da agenzie di marketing con lo scopo di spargere contenuti atti a denigrare i candidati in corsa per la poltrona di presidente e altre figure politiche a loro vicine.
Per fare un esempio, è notizia dell’8 ottobre la chiusura di ben 200 account Facebook, 76 profili Instagram e 55 pagine di Facebook approntate alla società di marketing Rally Forge per conto di Turning Point USA (un gruppo di giovani conservatori) con lo scopo di screditare i loro avversari politici.


Ma l’azione di Facebook non è si limitata solo a questo tipo di interventi bensì è andata oltre. Il social network ha infatti dichiarato che avrebbe tenuto gli occhi aperti anche sui singoli post degli utenti, rimuovendo quelli che invitano i supporter dei candidati a fare monitoraggio indipendente ai seggi elettorali. Questa è un’azione indirizzata direttamente al presidente Trump che in più di un’occasione aveva chiamato i suoi seguaci a mobilitarsi e andare a fare la guardia ai seggi, cosa che totalmente illegale negli Stati Uniti dove è permessa alle urne solo la presenza di osservatori certificati e operanti su specifico mandato dei partiti, un po’ come accade anche da noi.
Infine, come ultima attività annunciata dalla piattaforma social di Zuckerberg c’è la disposizione che porterà a rimuovere i contenuti riferiti alle teorie del complotto firmate QAnon. Questa iniziativa in realtà arriva un po’ fuori tempo massimo se si considera che questo genere di idee sono sbarcare su Facebook 3 anni fa e il social network ha fatto da buon nido per loro. Ma come si dice in certi casi, meglio tardi che mai.


La battaglia per tutelare il voto, il risultato delle urne e la coesione sociale non si gioca però solo sul campo dell’intelligence con l’FBI e il Department of Homeland Security, oppure sulle piattaforme social con Facebook, Twitter e altri a loro affini, ma ha sede anche nei tribunali e presso gli uffici dei governatori dei vari stati.
Il sistema elettorale americano è piuttosto variegato, ogni stato presenta delle sue particolarità e discrezionalità e proprio nelle pieghe delle autonomie locali si stanno cercando di infilare i repubblicani, per ottenere delle modifiche in grado di influire sul destino dei voti via posta.


Il Partito Repubblicano ha provato ad esempio a mettere in questione il voto via posta nello stato del Montana, suggerendo un’eventuale rischio di frode elettorale, ma li un giudice si è opposto allo stop e il voto via posta è continuato regolarmente. Nel South Carolina invece è arrivata una sentenza della Corte Suprema che ha permesso di procedere con alcune restrizioni sul voto postale. Nel Texas invece si è mosso direttamente il governatore repubblicano che ha fatto chiudere diversi punti di consegna per le schede elettorali lasciandone attivo solo uno per contea. L’ultima novità invece proviene da uno stato chiave come la Pennsylvania dove i repubblicani hanno provato a rendere incostituzionali le caselle elettorali. In questo caso il giudice del Western District of Pennsylvania, Nicholas Ranjan, ha rigettato l’istanza e permesso alla routine elettorale locale di andare avanti senza modifiche last minute.


Le elezioni americane 2020 col passare dei giorni danno l’impressione di essere un qualcosa di confuso e potenzialmente instabile. Il sistema degli Stati Uniti, nel suo complesso, si trova ora sotto un’enorme pressione generatasi dalla combinazione di due fattori; la presenza di Trump alla Casa Bianca e quella del Covid in giro per il mondo. Questo ovviamente preoccupa molte persone all’interno della federazione ma porta pensieri anche negli altri paesi, che con l’America hanno rapporti da gran tempo e su questa fanno affidamento per risolvere molte questioni internazionali.
L’unica cosa certa di tutta questa situazione è che nessuno, ne li ne qui, avrà modo di annoiarsi fino all’Election Day e probabilmente anche oltre.

Fonti: Asociated Press (08/10/2020), CBS (30/09/2020), Politico (07/10/2020), The Guardiam (28/09/2020), NBC (08/10/2020), CNN (07 e 10/10/2020)