Pubblicato il 1 Giugno 2022
“Ero giovanissima, avevo problemi di salute mentale ed economici, non avevo un lavoro con entrate certe, scelsi di abortire”.
Così Giorgia Soleri.
Modella, attivista, influencer, autrice di un libro di poesie (“La signorina nessuno”, Vallardi), racconta la sua interruzione di gravidanza, a 21 anni, in una intervista al Corriere della Sera durante la Fiera dei librai di Bergamo.
Addosso ha una maglietta con scritto “libera di abortire”: “Ci sono cose di cui non si parla, perché c’è uno stigma pesante. Ma quando apri uno spiraglio, si apre un vaso di pandora. Scopri che molti conoscono quell’esperienza”.
La sua, di esperienza, come quella di molte altre, è stata “estremamente negativa”. Non per la sua scelta, libera appunto, ma per quello che le è capitato quando si è “interfacciata col mondo sanitario”, per il percorso che alcune donne attraversano quando decidono di interrompere volontariamente una gravidanza.
“Sono andata in consultorio in Brianza e sono stata aggredita dalla ginecologa, che mi sgridò dicendo che noi giovani facciamo sesso senza precauzioni e usiamo l’aborto come contraccettivo, senza sapere nulla della mia storia”, spiega Soleri.
Poi , racconta ancora la modella, la prassi prevede che “un’assistente sociale indaga sulla tua famiglia per capire se ci siano traumi che ti hanno portato ad abortire con domande violente e invadenti a cui non vorresti rispondere poiché, qualsiasi sia il motivo della scelta, l’aborto è un diritto. Per sette giorni devi soprassedere, non puoi abortire: è come se lo Stato dicesse ‘ti permetto di fare questa cosa brutta, tu vai in castigo sette giorni, pensaci, se hai ancora il coraggio di farlo, va bene’. Ci sono donne che abortiscono senza senso di colpa, è ingiusto obbligarle a vivere questa esperienza in modo traumatico quando è possibile accompagnarle. Piuttosto di un colloquio con l’assistente sociale, proporrei delle sedute di psicoterapia”.
Secondo Soleri “la 194 (la legge sull’aborto, ndr) ha lacune enormi che dovrebbero essere prese in considerazione. Invece rimane una legge fuori dal periodo storico in cui viviamo”.
Non solo, “ci sono cose di cui non si parla, perché c’è uno stigma pesante. Ma quando apri uno spiraglio, si apre un vaso di pandora. Scopri che molti conoscono quell’esperienza”, dice l’attivista che ha raccontato per sé e per le altre anche di essere affetta da vulvodinia, malattia “invisibile” che le è stata diagnosticata con 8 anni di ritardo rispetto ai primi dolori che ha accusato.
Da quella diagnosi e dal calvario per arrivarci, fatto di autodiagnosi, ricerche su Google, vergogna, delegittimazione, è nata una proposta di legge per il riconoscimento della vulvodinia e della neuropatia del pudendo dal Sistema sanitario nazionale ed è nato anche il bisogno di raccontarsi a discapito della propria privacy: “Ho scoperto – dice Soleri – il potere della condivisione facendo attivismo, da lì ho avuto la forza di trattare altri aspetti della mia vita, come il soffrire di depressione o l’aver abortito”.