Pubblicato il 13 Luglio 2020
“Mi angoscia che gli sbarchi continuino, che continuino questi viaggi. Ma mi angoscia ancora di più che non siano ridotti né tantomeno risolti i problemi che costringono queste persone a tentare di arrivare fino a noi, all’Europa, al mondo che conosciamo, alla vita così come noi la conosciamo. E mi angoscia ogni giorno di più che sugli sbarchi, quando le persone che stanno sulle navi, sui barconi, sono già riuscite a salvarsi, noi – l’Italia, l’Europa – continuiamo questi giochi di potere, questo braccio di ferro”.
Maria Fatima Trimarchi si occupava degli sbarchi a Messina da volontaria quando cominciò ai lavorare sul tema nella scuola in cui è docente, l’istituto Antonello. Nacque “Nessuno straniero a scuola”. Un percorso che prosegue.
“Ho sempre chiesto a tutte le persone immigrate africane che ho conosciuto se avessero mai raccontato la loro odissea, il viaggio in mare, i pericoli, le sofferenze, le malattie. E tutti mi hanno risposto di sì. Che l’avevano fatto. Che non avevano risparmiato alcun dettaglio ai loro familiari e amici rimasti in Africa. Ma mi hanno raccontato anche che a ciascuno di loro era stata data una medesima risposta da chi era rimasto ‘a casa propria’. La risposta era questa: tu ti sei salvato, devo provarci anche io”.
Quando guardiamo al fenomeno degli sbarchi, quando cerchiamo di analizzarlo, quando prendiamo posizione – dice Maria Fatima – “spesso semplicemente non abbiamo idea di ciò di cui stiamo parlando”.
La mamma scappata per salvare la figlia dall’infibulazione sul tavolo da cucina
Ad arrivare a Messina, per esempio, è stata una giovanissima moglie e madre, che ha portato con sé la figlia di pochi mesi e si è imbarcata senza sapere di essere incinta. Aveva avuto già due figlie. Entrambe erano state infibulate per volere inappellabile del marito. L’operazione era stata fatta dalla suocera, sul tavolo da cucina. Una bambina è morta. L’altra è rimasta zoppa per una grave infezione causata dall’intervento. La giovane mamma aveva cercato in ogni modo di convincere il marito a non sottoporre anche la terza figlia, ancora piccolissima, alla stessa pratica. Aveva cercato di ragionarci. Non c’era riuscita. Il tavolo da cucina, i coltellacci, la suocera … tutto era pronto, nonostante una morte e una grave malformazione fossero state le conseguenze delle operazioni precedenti. E l’intera comunità era d’accordo per l’infibulazione. E così, per salvare la figlia, la madre non ha trovato altra soluzione che mettersi su un barcone portandosi dietro la neonata.
Gli sbarchi hanno portato a Messina, per fare un altro esempio, un ragazzo cardiopatico che “a casa sua” sarebbe morto nel giro di qualche settimana. Qui frequenta con successo il quarto superiore e ha trovato lavoro in un bar. Con gli sbarchi, per dirne un’altra, è giunto da noi un ragazzo maltrattato – torturato – dalla matrigna, cattiva come nelle favole più dark. È scappato perché nessuno l’ha protetto. È scappato perché se non l’avesse fatto non sarebbe sopravvissuto a lungo.
“Se pensiamo agli sbarchi dovremmo pensare anche a cosa è la vita in Africa”
“Se pensiamo agli sbarchi, se pensiamo ai viaggi intrapresi da queste persone non ne afferriamo il senso. È normale. Nei nostri parametri di valutazione diamo per scontate troppe cose che sono scontate per noi e impossibili per loro. Cose come studiare, farsi curare se si è ammalati, poter scegliere un credo religioso o politico. Ma tutto questo su cui noi basiamo la nostra quotidianità semplicemente lì non c’è. Le loro sono condizioni di vita così lontane dalle nostre, così disumane, che per quanto noi ci si sforzi di mettersi nei loro panni, raramente ci riusciamo”.
Quando “Nessuno straniero a scuola” è cominciato, tre anni fa, la comunità più grossa nell’istituto Antonello era quella degli studenti filippini. Al secondo posto c’era quella dei cingalesi. Adesso al secondo posto ci sono i ragazzi dell’Africa sub sahariana. Tra tutti questi giovani “ci sono tante, davvero tante storie a lieto fine”.
Il ragazzino che lavorò per la mostra sui migranti e trovò adozione a Messina
Tre di questi ragazzi si sono appena diplomati. Con voti che vanno da 70 a 100. Uno di loro ha una storia particolarmente fortunata. Oggi lavora, ha ottenuto la protezione internazionale per altri due anni e “speriamo che possa avere il permesso di soggiorno”. Un altro era cattolico ma non aveva mai potuto praticare la sua religione. Qui da noi si è aggregato ad una comunità e ha trovato la possibilità di pregare il Dio in cui crede.
La vicenda del terzo giovane è “una favola realizzata”. Stava in una casa d’accoglienza. Su proposta di Maria Fatima è stato inserito tra le guide di una mostra dedicata ai migranti e realizzata da Comunione e Liberazione al Rettorato di Messina. Proprio una degli organizzatori chiese in affidamento il ragazzino e – dopo il periodo richiesto dalla legge – lo ha adottato. Anzi “è giusto dire che l’hanno adottato in quattro, madre, padre e due figli. L’ha adottato l’intera famiglia”. E siccome tutto questo è successo quando lui non aveva ancora 18 anni, per la legge è italiano. E sempre da quella mostra – la Trimarchi aveva chiesto che fossero scelte, le guide, tra i ragazzi che quel viaggio l’avevano davvero fatto – nacque un corso di alfabetizzazione a Cristo Re realizzato proprio per gli immigrati. Tra gli insegnanti del corso c’era una coppia che scelse di adottare un ragazzino africano. Il quale oggi ha una mamma, un papà e quattro fratelli italiani.
Esperienze come queste – sottolinea Maria Fatima Trimarchi – “provano come basti innescare un circolo virtuoso per ottenere risultati insperati”.
“Sulla questione sbarchi l’unico nemico è l’ignoranza”
“Mio figlio è stato per due anni in Spagna. In questo momento molti dei miei studenti ed ex studenti messinesi sono in giro per l’Europa, ma anche negli Stati Uniti. Si sono trasferiti per specializzarsi, per lavorare, per conoscere il mondo. E io ogni giorno mi chiedo come sia possibile che il solo fatto di nascere qui consenta a loro di fare tutto questo mentre allo stesso tempo si nega ai loro coetanei africani anche il pensiero di potersi salvare”.
Per i suoi due figli, “cresciuti a pane e accoglienza”, Maria Fatima ha solo un timore: che rimangano delusi dal mondo che ci circonda. “Per loro l’integrazione è un fatto normale. E io ne sono molto orgogliosa. Anche perché molto del mio tempo, delle mie energie è stato dedicato a questi loro ‘fratelli’ venuti dagli sbarchi”.
E Messina? “Messina è una città estremamente solidale. Ha voglia di essere solidale. Ha tenacia nell’essere solidale”. L’istituto Antonello è un fiore all’occhiello nel campo dell’integrazione, i corridoi umanitari, per esempio quelli della comunità di Sant’Egidio, rappresentano esperienze di straordinario valore, sono tantissimi i volontari impegnati. Allo stesso tempo, però, c’è un nemico potente da combattere. “La cosa da sconfiggere è l’ignoranza. Faccio un esempio: molti messinesi protestano contro gli extracomunitari che chiedono l’elemosina. Io passo il mio tempo a spiegare loro che – a causa di lungaggini e pastoie burocratiche delle quali l’Italia è, ahimè, patria assoluta – molti di loro che avevano trovato lavoro non possono essere assunti, nonostante la volontà dei potenziali datori di lavoro. Le nostre leggi lasciano questi immigrati in una specie di limbo, e ciò dura per anni. Senza considerare che questo ‘limbo’ è un terreno nel quale tenta di pescare anche la malavita”.
Nonostante, però, i viaggi a rischio di vita, le difficoltà dell’integrazione, l’incertezza assoluta di presente e futuro, i giochi di potere degli stati europei, nonostante tutto ciò per Maria Fatima Trimarchi gli sbarchi proseguiranno. “Non si può fermare la fuga dall’orrore se non si ferma l’orrore”.