A un anno da quella mattina del 6 marzo 2024, quando la vita di un ragazzo di sedici anni si è tragicamente spezzata, Pamela Artale, madre di Giuseppe Maiolo, ha scelto di parlare. Lo fa per la prima volta, affidando il suo dolore a una lettera che è molto più di un semplice ricordo: è un grido umano, una richiesta di rispetto, un ritratto autentico e sofferto di una vita vissuta in salita.
«Vi racconto chi era Giuseppe Maiolo, mio figlio». Così si apre la lunga lettera scritta da Pamela, e da lì in poi la sua voce scava a fondo, con parole crude e sincere, tra ricordi, lotte quotidiane e delusioni. Una madre che non cerca commiserazione, ma verità e dignità per il proprio figlio e per la loro storia, travolta negli ultimi mesi anche da strumentalizzazioni e speculazioni pubbliche.
Il racconto che segue è di una vita spesa tra sacrifici estremi, spesso in solitudine, per garantire a Giuseppe e a sua sorella Alexia un futuro migliore. Pamela parla della fatica, dei tentativi di contenere una spirale che andava sfuggendo di mano. E poi, della decisione devastante ma necessaria: denunciare suo figlio per salvarlo, chiedere aiuto a un sistema che troppo spesso lascia le famiglie sole.
«Sono la mamma di Giuseppe Maiolo e sono una madre che il 6 marzo 2024 ha affrontato il dolore più grande della sua vita, quello di cercare di scaldare le mani di suo figlio sperando riaprisse gli occhi. Sono una madre che appena apre gli occhi al mattino rivive la scena di suo figlio in strada appena dopo l’incidente. Ed oggi a distanza di un anno, in piena fase di elaborazione del lutto, mi ritrovo ad essere una madre che appena apre i social per svagarsi trova immagini di suo figlio, articoli e commenti creati per mero scopo politico. Ho provato a praticare il silenzio, a non espormi, ma la stanchezza inizia a farsi sentire e credo sia giusto sappiate chi fosse mio figlio e quale fosse la situazione in cui ci siamo trovati catapultati. – scrive – Ho cresciuto i miei due figli completamente da sola, con l’aiuto della mia famiglia e con tanti, tanti sacrifici. Arrivai anche a fare tre lavori pur di non fargli mancare nulla e a sacrificare l’adolescenza di mia figlia maggiore, Alexia, cosicché potesse badare a Giuseppe. L’adolescenza di mio figlio come quella di tanti altri ragazzi non è stata semplice, tante assenze, tante mancanze nonostante io mi sforzassi di dargli il 100% di me, ma certe assenze ho imparato che non puoi colmarle. Ho lottato con tutte le mie forze insieme a lui, cercando di non abbatterci mai, e quando qualcosa faceva paura lui mi diceva: “Tranquilla mà’, tutto passa”. Crescendo è diventato ancora più complicato riuscire a gestirlo, e nonostante gli sforzi e le raccomandazioni sul mondo esterno, lui è finito nel giro più brutto di tutti. Ho cercato di stargli vicino in tutti i modi, arrivando addirittura come ultimo tentativo disperato a denunciarlo e farlo arrestare con l’aiuto di mia figlia. Volevo che qualcuno mi aiutasse a farlo uscire dal brutto giro di cui era entrato a far parte. L’ho seguito in tutti gli iter legali insieme al mio avvocato senza mai abbandonarlo, ero presente ad ogni arresto, e anche quando lo hanno trasferito in una casa famiglia non ho mai saltato un giorno di visita. Non mi sono mai arresa, non gli ho mai lasciato la mano. Ma tutto ciò non è servito. Purtroppo quando entri nel sistema sbagliato è difficile uscirne, ma soprattutto è difficile proteggersi, loro non si fermano… Sono iniziate le minacce sotto e dentro casa, i pedinamenti… Al seguito di questi avvenimenti successivamente denunciati, un giudice minorile mi ha spiegato che accettando una temporanea sospensione della patria potestà avrei permesso a mio figlio una maggiore speditezza burocratica per la sua tutela.
Ed è proprio da quel momento che è iniziata invece la parte più difficile della nostra storia, perché nulla cambiò, mio figlio viveva ancora a casa con me, proprio dove ci minacciavano, ma soprattutto io non avevo più alcuna autorità su di lui non avendone la patria potestà. Mi ritrovai a non poterlo portare dal medico di base del nostro paese, anzi, dovevo fare un viaggio di due ore. E quando coloro che lo minacciavano lo hanno investito con l’auto, sapevo di non poterlo portare io personalmente in ospedale sempre per via della patria potestà, quindi mi sono trovata obbligata a mentire ed omettere questo dettaglio pur di farlo visitare. Non ho potuto neanche iscriverlo io personalmente a scuola, e nessuno si è più interessato di farlo. A mio figlio serviva protezione e invece ci siamo ritrovati dentro l’ennesimo vortice di caos e disorganizzazione. Tutto ciò che avevo fatto per lui iniziava a sembrarmi vano.
Quella mattina, la mattina del 6 marzo 2024, mio figlio era a scuola, ma non perché qualcuno lo avesse iscritto, bensì perché lui voleva tornare a studiare ed era andato a parlarne con la sua professoressa. Io ero a casa ad aspettarlo mentre gli preparavo la colazione, e lui mi ha detto solo “mamma a scuola è andata bene sono contento che ci ritorno ora vado a fare un servizio pochi minuti e torno”. Mio figlio da quella porta non è più rientrato. Mio figlio quella mattina sarebbe dovuto essere a scuola, come ogni gazzo di sedici anni. Io come madre so di avercela messa tutta, e lo stava facendo anche lui. Ma ci sono state cose molto più grandi di noi, che una semplice mamma, da sola, non poteva fare.
Scrivo ciò perché credo sia giusto mettere a tacere le illazioni che vengono fatte su mio figlio e la nostra famiglia, soprattutto in un momento devastante come questo, in cui l’unica cosa di cui abbiamo bisogno per conviverci è tranquillità e affetto».
La lettera di Pamela Artale arriva come un pugno nello stomaco, ma anche come un gesto coraggioso e necessario. È il tentativo di restituire umanità e verità a una storia complessa, che non può essere ridotta a un fatto di cronaca né, tantomeno, usata come strumento di battaglia politica o giudizi morale.
Un appello alla compassione e alla riflessione, perché ogni volto dietro una notizia ha una madre, una famiglia, una vita fatta di scelte difficili e battaglie silenziose.
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