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Link Festival: Giovanni Minoli riceve il Premio Testimoni della Storia

Grande opening per il Festival del Giornalismo di Trieste con la consegna del Premio Crédit Agricole FriulAdria Testimoni della Storia a Giovanni Minoli e un’intervista a tutto campo a questo grande protagonista dell’informazione italiana, che non ha risparmiato qualche stoccata e commento speziato.

Pubblicato il 2 Ottobre 2020

Grande opening per il Festival del Giornalismo di Trieste con la consegna del Premio Crédit Agricole FriulAdria Testimoni della Storia a Giovanni Minoli e un’intervista a tutto campo a questo grande protagonista dell’informazione italiana, che non ha risparmiato qualche stoccata e commento speziato.

Molto atteso era l’arrivo di Giovanni Minoli al Link Festival e molta era la curiosità verso quanto avrebbe potuto raccontare al pubblico questa importante figura del giornalismo. Nell’intervista condotta da Roberto Papetti, direttore de Il Gazzettino, Minoli ha richiamato alcuni momenti significativi della sua carriera ma ancor di più ha commentato sul mondo dell’informazione, sulla politica e sulla sostenibilità.

L’avvio del dialogo ha avuto come tema la carriera di Giovanni Minoli e una sua valutazione su tutto quello che ha fatto professionalmente. Alla domanda se ci fosse stata qualche esperienza che col senno di poi magari non rifarebbe Minoli ha risposto con convinzione di essere orgoglioso di tutti i suoi programmi e le sue interviste. Poi, cogliendo l’occasione offerta dal tema in discussione, ha voluto spiegare il modo in cui lui si intende nell’ambito della sua professione. Così i presenti hanno potuto scoprire come colui che un po’ tutti vedono come un’icona del giornalismo in realtà si vede più come “un dirigente televisivo andato anche in onda”.
Minoli infatti è stato una figura direttiva alla RAI, un autore di programmi televisivi, poi un conduttore degli stessi e il ruolo di giornalista è per lui solo una delle tante componenti della sua carriera, in cui ha sempre avuto una preferenza per la libertà di azione. A tal proposto, l’intervistato ha voluto ricordare un dialogo fra lui e il suo collega Maurizio Costanzo in cui gli veniva fatto presente che con le sue potenzialità avrebbe potuto fare un sacco di soldi. In tale occasione egli rispose a Costanzo che i soldi erano meno importanti del poter mantenere il controllo su quello che faceva. “Sono sempre stato io il mio padrone” ha dichiarato Minoli.

Fra le varie libertà che Giovanni Minoli si è saputo prendere lungo il suo percorso di autore televisivo c’è stata anche quella di scegliere l’impostazione visiva dei suoi programmi, un fattore che diventava anch’esso linguaggio. Minoli ad esempio era alla ricerca di un modo per pulire lo schermo, cancellare elementi e dettagli di disturbo lasciando allo spettatore solo il nocciolo, solo ciò che contava cioè intervistatore e intervistato. La risposta a questa sua necessità venne con l’introduzione della tecnica del chroma key che permetteva di staccare, strappare i soggetti dallo sfondo. “Togliere tutto e lasciare solo l’essenza e ho capito che il chroma key mi dava quello”.

Poi l’intervista si è spostata sul tema della comunicazione, con il ruolo del servizio pubblico, delle testate giornalistiche e di coloro che ora aspirano a fare i giornalisti.
A sentire Minoli sarebbe il caso di procedere con una “RAIfondazione”cioè una rifondazione di questa entità pubblica partendo da un’analisi su quale può essere la sua funzione ora e nel futuro. In pratica, iniziare col chiedersi se e perché il servizio pubblico ha senso e solo a quel punto attuare le modifiche.
Secondo Minoli nessuno dei recenti amministratori delegati della RAI ha potuto apportare tutti i cambiamenti che ci sarebbero voluti “perché prima devi capire perché ha senso (la RAI) e poi la puoi rifondare”. E continuando su questo argomento ha voluto anche offrire un eventuale spunto ovvero “Fiction, fiction, fiction” perché essa “parla alla testa e al cuore della gente” e “perché li c’è più informazione e più cultura”.
Dal punto di vista di Giovanni Minoli programmi come i talk show non hanno senso, “sentiamo talk praticamente inutili” mentre le serie ben ideate e ben scritte danno molto di più allo spettatore, infatti lui come utente preferisce seguire le fiction proposte da Netflix o Amazon Prime Video piuttosto che perdersi nella selva dei dibattiti televisivi.

Dalla stroncatura dei talk show Minoli è poi passato a valutare l’atteggiamento delle nuove generazioni di giornalisti, nuovi interpreti del mestiere che a suo dire sembrano più interessati ad arrivare velocemente in TV e diventare professionisti dell’opinione piuttosto che impegnarsi seriamente nell’esercizio dell’informazione.
Ma il suo giudizio non è stato carezza di piuma neanche quando si è trattato di parlare delle testate. “I giornali di oggi non sano cosa essere,” ha detto Minoli “vorrebbero essere tutto e sono in crisi”. Secondo il suo punto di vista molte testate giornalistiche non hanno ancora ben chiaro cosa vogliono essere tanto che a volte quasi ci si confonde sulla loro natura. Sono giornali che fanno informazione? Inchiesta? Oppure gossip? Tante cose si mescolano e si sfumano, così l’identità e la missione dei giornali diventano incerte.

La vena critica di Giovanni Minoli ha poi trovato ulteriore ambito di espressione quando Roberto Papetti lo ha portato sul terreno della politica, ricordando fra le altre cose anche la famosa “intervista della panchina” del 1987. In quell’occasione Minoli si ritrovò a intervistare Bettino Craxi producendo quello che poi è stato definito come uno spot elettorale per il Partito Socialista Italiano.
Parlando di quell’episodio il giornalista ha raccontato che in realtà aveva cercato di evitare quell’intervista ma Biagio Agnes insistette. Così Minoli accettò ma a una condizione, che fosse ben evidente come quell’intervista avesse la stessa funzione delle pubblicità.
Continuando sulla politica, Giovanni Minoli ha voluto fare qualche comparazione fra le varie classi dirigenti che si sono susseguite dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e quella che vediamo all’opera ora. Nel commentare Minoli ha valutato la prima generazione come di alto livello, la seconda di livello buono ma non come quella che la aveva preceduta e poi con l’arrivo della terza il livello si è abbassato ulteriormente e ci siamo trovati davanti a innumerevoli episodi di corruzione.
Nell’effettuare il confronto fra le varie ere politiche italiane Minoli non si sottratto dal giudicare negativamente il sistema attuale di accesso alla politica e alle cariche istituzionali. Nel contestualizzare il suo punto di vista Minoli ha ricordato quale fosse il processo di selezione della classe politica nel passato e di come fosse arduo per chiunque arrivare ai vertici. “I partiti selezionavano in modo duro” ha detto l’intervistato, aggiungendo che quasi tutti quelli che accedevano ai livelli superiori erano ben laureati, dei professori. Di seguito Minoli ha chiuso l’argomento con un affondo piuttosto crudo: “uno vale uno un c…”. Poi, accortosi di cosa gli era scappato di bocca, si è scusato per il tono attribuendo la responsabilità per la scelta del termine a un moto interno di sincerità.

Approfittando dell’occasione fornita da quest’ultima osservazione l’intervistatore ha dunque riproposto come argomento le interviste chiedendogli, a proposito di classe dirigete e professori, che domande penserebbe mai di fare a un presidente del Consiglio come quello attuale. E qui Minoli è stato sibillino: “Gli chiederei: ‘Lei è professore? Veramente professore?’…no, perché ci son dei bubbi”.
Poi da questa suggestione la mira si è spostata sui nuovi protagonisti della scena, che sono riusciti a superare anche i politici odierni, ovvero gli esperti di virus ed epidemie.
“I virologi hanno conquistato la scena e sono padroni del verbo” ha affermato Giovanni Minoli, osservando come questi vengano spesso interpellati a tutti i livelli, dalla politica all’informazione, ma fra di loro hanno spesso visioni che confliggono e riescono a creare caos nelle discussioni, comprese quelle del Comitato Tecnico Scientifico. Secondo Minoli uno dei motivi per cui diversi passaggi nei documenti del CTS sono rimasti coperti da segreto è perché fra di loro c’è stata molta discussione, non andavano d’accordo su tutto.

Fra gli argomenti esplorati durante l’intervista c’è stata poi la sostenibilità. Uno degli ultimi contributi di Minoli è infatti “Green Leader. Le aziende e il pianeta” ovvero un contenitore in cui lui ha raccolto le interviste fatte ai manager di importanti aziende, con l’intento di scoprire se questi immaginassero e volessero veramente implementare un approccio green alla produzione e alla distribuzione dei loro prodotti. Come si sa il tema ambientale è diventato piuttosto popolare, quasi di moda, se ne parla molto e diverse aziende dicono di voler optare per sistemi produttivi più green, contribuire a una svolta, ma può anche capitare che fra il dire e il fare ci sia un bel po’ di distanza. L’impressione che ha avuto Minoli durante questo dialogo con l’imprenditoria è comunque di una leadership che in comincia a prendere effettivamente la cosa sul serio e che in giro ci siano segnali che qualche speranza la danno, come la scelta del fondo di investimenti americano BlackRock di far entrare fra i criteri di valutazione delle aziende anche il fattore sostenibilità ambientale.

Durante l’intervista non sono neanche mancati gli aneddoti riguardanti alcune sue interviste. Interpellato su quale fosse stata l’intervista più difficile Minoli ha citato quella con Enrico Berlinguer. A quell’epoca il segretario del Partito Comunista accettava di rispondere solo alle tribune politiche e non si era mai lasciato intervistare, ma a un certo punto per Minoli si aprì uno spiraglio. Al primo abboccamento il progetto non andò in porto anche perché era noto che questo giornalista non risparmiava alcuna domanda, manco la più scomoda o personale. Dopo alcuni mesi però ci fu un riavvicinamento delle parti e le trattative ripresero. A quel punto Berlinguer propose di lasciare libero Minoli su tutto tranne sulle domande riguardanti la sua famiglia che sarebbero state concordate. A Minoli di norma non piaceva accordarsi su nessun quesito ma l’occasione era troppo ghiotta, così accettò.

Invece, dovendo spulciare nella memoria per trovare un’intervista per lui particolarmente significativa, Minoli ha scelto il suo incontro con la scrittrice e poetessa Marguerite Yourcena. Nell’approcciare l’intervista e l’intervistata Minoli chiese in che lingua l’intellettuale belga volesse parlare e lei gli rispose “Io so il latino, il greco, lo spagnolo, il portoghese e sono stata 15 giorni a Firenze” dunque valutò di conoscere l’italiano e di poterlo parlare anche durante quell’incontro.
Oltre alla spericolata scelta linguistica la Yourcenar si è poi fatta notare anche per altro un fatto singolare. Mentre Minoli le proponeva le sue domande la scrittrice di tanto in tanto si fermava e annotava qualcosa sulle sue cosce. La cosa ovviamente incuriosì l’intervistatore che alla fine non resistette e le chiese cosa avesse scritto. Così madame Yourcenar gli raccontò che la sera prima aveva avuto fra le mani un manoscritto in aramaico e li per li le era ritornato alla mente e così aveva buttato giù qualche appunto.
Quello, ci ha raccontato Minoli, è stato un momento in cui lui si è sentito particolarmente sciocco, avendo davanti una figura così grande come lo era lei.
Può capitare che un giornalista a forza di intervistare persone importanti si faccia l’idea di essere in gamba, poi però capita il giorno particolare e il soggetto che pensa ai manoscritti in aramaico mentre scorre l’intervista e tutto si ridimensiona.
Pochi mesi dopo quell’intervista, per lui importante, la scrittrice se ne andò.