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Nuova frontiera per la stampa 3D: idrogel, materiali che si riparano da soli

Pubblicato il 28 Aprile 2021

La comunità scientifica sta concentrando moltissimi studi sulle molteplici applicazioni degli Idrogel, materiali polimerici contenenti grandi quantitativi di acqua, potenzialmente in grado di riprodurre le caratteristiche dei tessuti biologici. Questo aspetto è di particolare rilievo nel campo della medicina rigenerativa, che già da tempo ha riconosciuto e sta utilizzando le potenzialità di questi materiali. Per poter essere impiegati efficacemente in sostituzione dei tessuti organici, gli idrogel devono soddisfare due requisiti fondamentali: possedere un’elevata complessità geometrica ed essere in grado di ripararsi autonomamente a seguito di un danno, esattamente come i tessuti viventi.

Lo sviluppo di questi materiali può essere ora più facile ed economico grazie all’impiego della stampa 3D: i ricercatori del team MP4MNT (Materials and Processing for Micro and Nanotechnologies) del Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico di Torino, coordinato dal professor Fabrizio Pirri, hanno dimostrato per la prima volta la possibilità di fabbricare grazie alla stampa 3D attivata dalla luce, degli idrogel con architetture complesse in grado di autoripararsi a seguito di una lacerazione. La ricerca è stata pubblicata dalla prestigiosa rivista Nature Communication in un articolo dal titolo “3D-printed self-healing hydrogels via Digital Light Processing” (DOI 10.1038/s41467-021-22802-z)

In realtà idrogel con proprietà autoriparanti o modellabili in architetture complesse tramite la stampa 3D erano già stati creati in laboratorio, ma in questo caso si tratta di una soluzione che racchiude entrambe le caratteristiche, ovvero la complessità dell’architettura e la capacità di rigenerarsi a seguito di danneggiamenti.

Inoltre l’idrogel è stato realizzato utilizzando materiali disponibili sul mercato, processati mediante una stampante commerciale, rendendo quindi l’approccio proposto estremamente flessibile e potenzialmente applicabile ovunque, con nuove possibilità di sviluppo sia nel campo biomedico che in quello della soft-robotics.

La ricerca è stata sviluppata nell’ambito del progetto di dottorato HYDROPRINT3D, finanziato dalla Compagnia di San Paolo dall’iniziativa “Joint Projects with Top University” e condotta dal dottorando Matteo Caprioli, con la supervisione del ricercatore del DISAT Ignazio Roppolo, in collaborazione con il gruppo di ricerca del professor Magdassi della Hebrew University of Jerusalem (Israele).

“Da diversi anni – racconta Ignazio Roppolo – all’interno del gruppo MP4MNT è stata creata un’unità di ricerca coordinata da me e dalla dottoressa Annalisa Chiappone che si occupa specificatamente di sviluppare nuovi materiali processabili tramite stampa 3D attivata dalla luce. La stampa 3D è in grado di offrire un effetto sinergico tra il disegno dell’oggetto e le proprietà intrinseche dei materiali, permettendo di ottenere manufatti con caratteristiche uniche. Nella nostra ottica è necessario approfittare di questa sinergia per sviluppare al meglio le potenzialità della stampa 3D affinché questa possa veramente diventare un elemento presente nella nostra vita di ogni giorno. E questo studio ricade esattamente nel solco di questa filosofia”.

Questa ricerca rappresenta un primo passo verso lo sviluppo di dispositivi ad elevata complessità, che possano sfruttare le geometrie complesse e le proprietà intrinseche di autoriparazione in vari ambiti. In particolare, una volta affinati gli studi di biocompatibilità in corso presso il laboratorio interdipartimentale PolitoBIOMed Lab del Politecnico, sarà possibile utilizzare queste strutture sia per studi di base sui meccanismi cellulari che per applicazioni nell’ambito della medicina rigenerativa.