S’inaugura a Palermo la mostra “Distopie”. Una mostra, al via domenica 12 luglio, alle ore 18,00, realizzata dal collettivo Rosy Crew e a cura di Mosè Previti, storico dell’arte messinese. L’appuntamento è al Santamarina Bistrot, in Piazza Pietro Speciale, dal 12 al 19 luglio, tutti i giorni tranne il lunedì, dalle 12.00 alle 00.00. Rosy Crew è un collettivo composto dagli artisti Daniela Balsamo, Antonio Curcio, Giusi Di Liberto, Danilo Maniscalco e Antonio Fester Nuccio che per questa mostra hanno invitato MoMò Calascibetta, Alessandra Di Paola, Maryna Ignatieva, Martina Pecoraino, Alessandra Tudisco e Freaklab.
“In Distopie convergono undici sguardi di artisti dalla densa attività, in campi e con modalità espressive diverse, che si sono cimentati in personali declinazioni del tema pour excellence del 2020. La declinazione al plurale del tema, tra pittura, scultura e illustrazione, segue percorsi imprevisti e per certi versi sorprendenti, dal mood ironico-drammatico-fantastico-romantico, talvolta irreverente, capace di una riflessione a tutto campo sul presente e, soprattutto, sul futuro”, si legge nel comunicato stampa.
Per il curatore, “l’arte non è la bellezza, l’arte è tutto, con tutto il cuore. L’artista non ha una responsabilità diversa dall’uomo comune, egli è l’uomo per eccellenza, e tra i miliardi di compiti cui egli può assolvere c’è senza dubbio quello di raccontare lo sgomento del mondo, i suoi sentimenti più fragili. Il panico però non può essere totale, soperchiante, non può annichilire la mente dell’artista. Il creativo avanza tutta la vita su una lastra sottile, la sua volontà di creare è un filo sospeso sulla follia. Il futuro è per lui sempre un invito, nonostante tutto. Questa mania sacra fiorisce tra questi artisti come il sorriso sulle labbra del matto sapiente, con lo scherzo caricaturale di chi non ha paura e nell’azione, nella creazione, sfotte l’oppressione della tecnica, la paura della morte”, sottolinea Mosè Previti nelle sue note dedicate alla mostra.
“La distopia come utopia andata a male“
Sostiene lo storico dell’arte e curatore: “La distopia è un’utopia andata a male, un disegno sbagliato, un’idea che diventa ossessione. L’utopia però è stata, prima di ogni altra cosa, un luogo, seppur ideale. Un luogo perfettamente disegnato che ha avuto illustri architetti, mi riferisco a la Repubblica di Platone, Utopia di Thomas More (inventore del termine), La città del Sole di Tommaso Campanella, La Nuova Atlantide di Francis Bacon e molti altri. Thomas More aveva ben chiari i limiti intrinsechi del suo romanzo: l’utopia è l’ottimo luogo che non si trova da nessuna parte, letteralmente: Οὐτοπεία. Forse l’atavico pragmatismo anglosassone guizzava nell’umanista con la consapevolezza che l’idea di un luogo perfetto è irrealizzabile. Probabilmente il problema non sta tanto nella fattibilità del progetto quanto nell’idea del progetto stesso. Il progetto, come tentativo di costruire la realtà a seguito di un astratto ragionamento, deriva dalla primazia che le idee esercitano sulla vita, spesso con sovranità assoluta. Si tratta di una caratteristica prettamente platonica e quindi interamente occidentale. Platone, insieme a Cristo, è il genitore dell’uomo europeo. La nostra concezione del mondo dipende da loro, grandi filosofi, grandi utopisti.
Anche i grandi totalitarismi del Novecento erano utopie rivoluzionarie, il loro era un tragico disegno di mutamento integrale della realtà. Questo mutamento è stato effettivamente realizzato fino ai suoi più tragici esiti. Tutto ciò che impediva all’idea di realizzarsi è stato torturato, ucciso, distrutto. Quando l’idea incontra la realtà non può che nascere un conflitto. La realtà, il mondo fenomenico, è un fiore fragilissimo nutrito d’innumerevoli suggestioni, un fiore che soffre fatalmente la linea dura e inflessibile del progetto, l’avanzare di un principio come ordine e poi prigione del mondo. Ne consegue che utopia e distopia sono facce delle stessa cosa, risultato dello stesso modo “diviso” di vedere il mondo: idea e realtà, astrazione e rappresentazione etc.
Se fosse possibile raccontare una plausibile storia della civiltà umana vi si troverebbe probabilmente il segno di un continuo tentativo di dominazione della realtà circostante, tentativo implementato dalle capacità intellettuali, scientifiche e tecnologiche. L’uomo non è un’animale, poiché i suoi istinti sono ponderati, la sua sussistenza è regolata dalla capacità di inventare strumenti atti alla sua sopravvivenza. Un essere umano non ha pelliccia, non ha artigli, zanne, né apparati biologici che possano aiutarlo a dominare naturaliter l’ambiente. L’uomo, infatti, non ha un habitat specifico, come i grandi predatori della savana, piuttosto vive in tutti gli habitat. Egli sopravvive grazie alla tecnica, cioè alla sua capacità di utilizzare l’ambiente per raggiungere i suoi obiettivi. La tecnica è quindi un modo di vedere la realtà e di modificarla costantemente. Un principio pratico per millenni sottomesso agli interdetti della religione e alle pratiche spirituali.
La nostra è l’età della tecnica, nel senso che la tecnica ha soppiantato anche l’uomo che la produce. I due grandi romanzi distopici del Novecento, 1984 di George Orwell e The Brave New World di Aldous Huxley, sono romanzi sull’assolutismo della tecnica prima ancora che sulla tirannia dei totalitarismi. Eppure l’idea di un principio in grado di creare nuovi mondi è tutta artistica. L’avanguardia europea l’ha generata. La prima guerra mondiale ha mostrato quanto fosse tragica la retorica dei futuristi, quanto fosse fragile il sogno mutilato dalle granate. Oggi le arti tradizionali si sono ritarate dalla rivoluzione utopica. Prima con un ritorno all’ordine, poi con un progressivo movimento centripeto che ha tolto di mezzo ogni velleità di ridisegnare il mondo. Oggi l’unico sogno possibile è diventare ricchi, cioè realizzare a tutti i costi l’egemonia della tecnica su tutti i valori.
Sia nelle arti figurative classiche sia nel cinema, la narrazione del nostro presente è una fuga immaginifica verso un mondo terribile, un mondo in cui gli individui sono sottomessi anche biologicamente all’ordine distopico, all’ordine anti umano. Disastri, zombie e pandemie popolano i sogni dell’inconscio collettivo. Il potere del mito è stato sempre quello di tramandare i valori fondativi, formativi, strutturalmente connotati di una comunità. Il mito di oggi, sottomesso allo strapotere assoluto della tecnica, è lo schermo di una coscienza traumatizzata che trova nella realtà ulteriori motivi di disagio. Il punto non è qui come scappare ma come superare la paura del futuro. Siamo all’urlo, al terrore paralizzante.
Nel villaggio gli stregoni vestono maschere di demoni e danzano davanti alla comunità per guarirla. Nel nostro mondo la fabbrica dei sogni sembra più voler esercitare una manipolazione, una preparazione al disastro più che un esorcismo. Le acque torbide del pensiero comune unificano le produzioni artistiche, nella parola arte s’identifica il creatore di immagini uniche e il creatore di arte riproducibile. Non sono la stessa cosa. È utile cogliere le differenze sostanziale negli intendimenti e nei fini dell’arte popolare, industrialmente prodotta. Si tratta di un’arte tecnica il cui obiettivo è la creazione di un immaginario in cui i valori della solidarietà, dell’uguaglianza e della giustizia sono sostanzialmente sottomessi al denaro e quindi alla tecnica. La qualità estetica di quest’arte non è oggetto di discussione, però è chiaro che essa ha un impatto fortissimo sulla psiche degli individui. Si tratta di vecchi argomenti su cui tanti si sono espressi ma che non hanno prodotto alcun risultato.
Recentemente abbiamo avuto la prova di quanto gli incubi dell’età della tecnica potessero essere realistici. Gli artisti come sismografi hanno registrato il terremoto innescato dall’epidemia, amplificata dai media fino al livello pandemico, termine etimologicamente non concorde con le seppur drammatiche statistiche del virus. Si tratta di uno squarcio immenso che è molto lontano dall’essere esplorato. Anzi. Gli artisti come oracoli avvertono che il diaframma è caduto, la tecnica conosce una nuova strada, radicale e insindacabile.
L’artista conserva l’ultima luce del mondo umano non ancora azzerato dalla tecnica. Il suo mondo fragile scintilla di visioni consapevolmente imperfette, la sua febbre sale in confidenza con gli spiriti del mondo sottile. L’artista come manifestazione del Logos, del significato nascosto delle cose, è custode di tutte le utopie e di tutte le distopie. La sua posizione non può mutare dalla connessione con il tutto. L’artista, come questa mostra spiega perfettamente, non si occupa della bellezza. L’arte non è la bellezza, l’arte è tutto, con tutto il cuore. L’artista non ha una responsabilità diversa dall’uomo comune, egli è l’uomo per eccellenza, e tra i miliardi di compiti cui egli può assolvere c’è senza dubbio quello di raccontare lo sgomento del mondo, i suoi sentimenti più fragili.
Il panico però non può essere totale, soperchiante, non può annichilire la mente dell’artista. Il creativo avanza tutta la vita su una lastra sottile, la sua volontà di creare è un filo sospeso sulla follia. Il futuro è per lui sempre un invito, nonostante tutto. Questa mania sacra fiorisce tra questi artisti come il sorriso sulle labbra del matto sapiente, con lo scherzo caricaturale di chi non ha paura e nell’azione, nella creazione, sfotte l’oppressione della tecnica, la paura della morte”, conclude Mosè Previti nel catalogo della mostra “Distopie”.
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