Il Bosco Colemi, nei pressi di Tuturano nel brindisino, fu scelto, nel 1943, come sede per l’accampamento delle truppe italiane – una vasta tendopoli capace di accogliere fino due-tremila soldati per volta – in attesa di imbarcarsi per la Grecia o l’Albania, inseguendo il sogno di un Impero d’Oltremare.
Riposti nel cassetto i sogni di grandezza, subito dopo l’armistizio, in zona fu dispiegata la Divisione Fanteria Piceno che, già assegnata alla difesa costiera della Puglia, fu la prima a passare sotto il comando dell’Esercito Cobelligerante Italiano del Regno del Sud, con il compito anche di proteggere il re Vittorio Emanuele III in fuga da Roma.
La scelta dell’accampamento a Colemi fu prettamente strategica: il bosco, situato non troppo lontano da Brindisi, forniva sufficiente riparo non solo contro le intemperie ma, soprattutto, rendeva invisibile l’accampamento, agli aerei britannici che, nottetempo e fino alle prime luci dell’alba, bombardavano dal cielo le nostre terre; inoltre era vicinissimo a Tuturano, ricco borgo agricolo a quell’epoca, dove era possibile e facile approvvigionare le truppe di quanto necessario per il sostentamento.
Continuando la ricerca sul web trovo, associato a Tuturano ed anche a Colemi, la sigla PG85 dove PG rappresenta l’acronimo di “Prigionieri di Guerra”, mentre il n°85 contraddistingueva territorialmente il campo di prigionia.
Infatti poco lontano da Colemi, esattamente presso la Masseria Paticchi, negli anni della guerra e fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, era attivo un campo militare dove vivevano reclusi alcune migliaia di prigionieri di guerra, soprattutto inglesi, catturati durante le battaglie in Grecia o Nord Africa e condotti via mare a Brindisi.
Per inciso, va ricordato che subito dopo l’armistizio, il 10 settembre 1943, ci fu la venuta del Re a Brindisi che, in quanto sede del Governo, fu anche Capitale d’Italia o, come sostengono gli storici minimalisti e coloro i quali proprio non digeriscono che Brindisi possa essere stata, sia pure per breve periodo ed in un’epoca particolare, Capitale d’Italia: Capitale del Regno del Sud, in contrapposizione alla Repubblica di Salò.
A scanso di equivoci va detto che questo campo militare non aveva nulla a che spartire con i famigerati campi di concentramento, ma era uno di quei posti dove venivano custoditi e, in periodo di sovraffollamento, letteralmente stipati, i soldati nemici ed in cui, grazie anche al rispetto della Convenzione di Ginevra, erano comunque garantiti i diritti fondamentali.
All’interno di uno dei locali vi sono ancora stesi dei vecchi fili spinati arrugginiti che fanno accapponare la pelle, ricordando quello che fu nei primi anni quaranta la destinazione dei fabbricati.
Delle baracche in legno dove erano ospitati i sottufficiali non vi è alcuna traccia mentre, sappiamo che i soldati semplici nemici, che erano la stragrande maggioranza, erano ospitati in una distesa di tende, probabilmente nella zona, all’epoca recintata e protetta dal filo spinato, fra la Masseria e Fiume Grande, che scorre a circa duecento metri ad est del corpo di fabbrica principale: il fiume fungeva, a quanto pare, oltre che da fossato naturale anche, assai più umilmente, da latrina da campo.
L’esistenza e l’ubicazione, di questo grande campo di prigionia, fa comprendere, insieme al bosco Colemi che, con le sue alte e fitte fronde, nascondeva il contingente italiano, perché, a differenza della vicina Brindisi, Tuturano, pur essendo importante dal punto di vista militare, fu sempre risparmiata dai bombardamenti nemici.
Non c’è traccia di alcuna esecuzione sommaria, anche se le leggi di guerra lo permettevano in caso di disobbedienza o tentativo di fuga, salvo il caso della punizione corporale di alcuni prigionieri, che furono legati mani e piedi per aver tentato la fuga, in un periodo, però, in cui a causa di una epidemia di meningite che aveva colpito non solo il campo di prigionia – causando una mezza dozzina di vittime – ma anche Tuturano, la zona fu sottoposta a ferrea quarantena, per evitare che la malattia si diffondesse all’esterno.
Giovanni Maria Scupola
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